Posted on: Febbraio 28, 2022 Posted by: marco Comments: 0

Altro mese, altra storia. Uno dei temi che più appassionano la nostra cittadina è la “fuga dei giovani”. Abbiamo fatto una chiacchierata con il Dott. Giampiero Lazzari, classe 1990, salentino de iure ma cosmopolita de facto. Con lui abbiamo parlato non solo delle differenze tra nord e sud ma anche di quelle tra Italia e paesi esteri. E mentre intitoliamo quest’articolo con le parole del matematico greco Teodoro di Cirene, auguriamo a tutti voi una buona lettura.

Chi è Giampiero Lazzari?
Ho 32 anni e sono cresciuto a Veglie in una famiglia molto unita tra gli sguardi attenti e premurosi di genitori, nonni e zii. Ho una sorella e un fratello più piccoli a cui sono molto legato. È difficile spiegare in un paragrafo chi sono, però posso dire che la coesione della mia famiglia mi ha trasmesso i valori in cui credo e se oggi posso ritenermi soddisfatto di quello che faccio e di quello che sono, è anche merito dei miei genitori. Mia madre e mio padre mi hanno sempre sostenuto nel fare ciò che mi piace. Mi piaceva studiare per esempio. Una volta preso il diploma di liceo scientifico, ho continuato a studiare a Lecce e mi sono laureato in Biotecnologie Mediche presso l’Università del Salento. Mi piace anche fare sport. Il nuoto e la pallavolo, in particolare, mi hanno insegnato quanto sia importante l’equilibrio tra l’avere fiducia nelle mie sole capacità per raggiungere il traguardo ed essere un buon team-player per far vincere la propria squadra.

Parlaci della tua carriera universitaria.
Durante gli ultimi anni del liceo avevo capito che provavo un certo fascino per il mondo della ricerca scientifica anche se in realtà, all’epoca, non lo conoscessi davvero bene. Mi piacevano le materie scientifiche e in particolare la biologia. L’idea che la Scienza fosse fatta di domande a cui rispondere e “cose” da scoprire mi incuriosiva. Così, senza prendere in considerazione altre alternative, sono entrato nell’aula D12 del campus Ecotekne, ho superato il test d’ammissione e il mese dopo ho iniziato il mio percorso accademico. Era il 2009. Durante i cinque anni di Università ho avuto la fortuna di passare molto tempo in alcuni laboratori scientifici di Unisalento: prima presso il Polo Oncologico dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce per la stesura della tesi di laurea triennale, poi nel laboratorio di Biologia Applicata del DiSTeBA per la partecipazione a una competizione internazionale tra studenti (IGEM) e infine nel centro di Nanotecnologie NNL per il tirocinio necessario alla elaborazione della tesi di laurea magistrale. Con alcuni amici e colleghi ho anche fondato un’associazione studentesca chiamata BioBang e ho realizzato iniziative di incontro e divulgazione scientifica. Abbiamo sviluppato un network di professionisti e scienziati provenienti da diverse parti d’Italia e ancora oggi giovani studenti portano avanti l’attività dell’associazione.

È alla fine di questo percorso che ho capito cosa voleva dire fare ricerca scientifica e a 25 anni mi sono laureato in Biotecnologie Mediche con 110 e lode. Il buon livello di questi piccoli lavori di ricerca ha portato anche le prime soddisfazioni: la mia tesi magistrale fu premiata alla fiera dell’innovazione del Comune di Monteroni di Lecce e un articolo scientifico è stato pubblicato su una rivista specialistica.

Quanto è impegnativo il mondo della ricerca scientifica?
Per fare ricerca ci vuole passione e tanta dedizione. Da neolaureato, il modo migliore per iniziare un progetto di ricerca scientifica è fare un dottorato di ricerca. Io volevo fare “qualcosa di importante”, qualcosa che lasciasse il segno non solo sul mio curriculum ma anche nel mio percorso di crescita personale. Per questo motivo, ho inviato la mia candidatura a un progetto di dottorato in Tecnologie Farmaceutiche indetto dal Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) dell’Univeristé Paris – Saclay e finanziato dalla Comunità Europea (Marie Curie fellowship). Dopo aver superato tre diversi colloqui, sono stato assunto, ho vinto la borsa di studio e mi sono trasferito a Parigi.

Sono stati tre anni intesi (il minimo per conseguire il titolo di PhD, dottore) e di alta formazione. Il lavoro è stato tanto e a volte le giornate sembravano interminabili, passate a far crescere cellule tumorali in vitro per poi testare l’efficacia di farmaci innovativi. Anche le soddisfazioni sono state tante, ho pubblicato tre articoli scientifici su riviste prestigiose e la mia tesi di dottorato è stata premiata dalla Académie Nationale de Pharmacie. Non sono nemmeno mancati i momenti di sconforto a causa di esperimenti non riusciti e mesi di lavoro senza risultati. È questa la vera difficoltà della ricerca scientifica: accettare che un fallimento o un risultato negativo sono pur sempre un risultato. Fa parte del gioco! Fare un dottorato o condurre un progetto di ricerca significa scommettere sull’incerto: è un atto di coraggio.

Paesi a confronto: ricerca scientifica meglio in patria o all’estero?
La ricerca scientifica in Italia non ha niente da invidiare a quella di altri Paesi. È un paragone che si tenta di far spesso, ma la qualità della ricerca scientifica non la fa il Paese, la fanno le persone che ci lavorano, ricercatori e professionisti con idee, capacità e passione. Fare ricerca in un paese diverso dal proprio è un modo per arricchire il proprio bagaglio di esperienze e aprirsi a realtà differenti.

Di cosa ti occupi oggi? Com’è lavorare per una multinazionale?
Oggi lavoro per Cytiva, una multinazionale che sviluppa strumenti, attrezzature e servizi altamente specializzati per la produzione su larga scala di terapie innovative: vaccini, immunoterapie, terapie geniche e cellulari. I nostri clienti sono aziende farmaceutiche, cliniche, ospedali, aziende biotech e startup. Attualmente sono di base a Milano e gestisco i clienti di ben quattro paesi differenti: Italia, Francia, Spagna e Portogallo. Lavorare in questa azienda e occupare questa posizione di specialista mi permette di gestire contratti commerciali e interagire quotidianamente con professionisti, ricercatori, medici e imprenditori che operano a livello internazionale per mettere a punto nuove terapie in campo clinico e renderle disponibili ai pazienti di tutto il mondo.

Raccontaci un po’ della vita fuori dal salento, parlaci di com’è vivere a Parigi e/o a Milano.
Trovo che vivere in città come Parigi e Milano sia estremamente stimolante. La loro apertura internazionale mi ha permesso di allargare i miei orizzonti e coltivare le mie ambizioni. Parigi e Milano offrono occasioni e connessioni che, se sfruttate bene, possono far crescere professionalmente e personalmente. In città così dinamiche bisogna darsi da fare e distinguersi per non rimanere indietro e far sì che la propria voce non sia coperta dai rumori del traffico. È un continuo adattarsi al cambiamento.

Cosa ti ha spinto a lasciare la tua terra?
È la voglia di esplorare e di conoscere che mi ha spinto ad allontanarmi dalla mia terra. Sentivo la necessità di dovermi staccare dalla routine e uscire dalla zona di comfort per poter trovare da solo la mia strada. Essermi confrontato con una cultura diversa, quella francese, mi ha fatto crescere e mi ha insegnato tanto.

Alle stesse condizioni economiche torneresti qui?
La risposta è no. E non sarebbero le condizioni economiche a farmi rispondere. Un aspetto interessante del mio attuale lavoro è quello di non aver bisogno di una sede: dovendo seguire clienti in quattro Nazioni diverse, sono spesso in viaggio (COVID19 permettendo) o virtualmente connesso in riunioni a distanza. Non lavorerei da Veglie perché mi verrebbero a mancare i servizi e i mezzi che garantiscono la dinamicità necessaria (avere un aeroporto internazionale e una stazione importante come Centrale entrambi a 20 minuti da casa fa la differenza). Non tornerei a vivere a Veglie perché poi mi mancherebbe la città con i suoi eventi, i musei, i ristoranti, i parchi e la piscina dietro l’angolo.

Cosa consigli ai giovani che vogliono intraprendere una carriera come la tua, magari all’estero?
Consiglio di non avere paura dell’incognito e di non farsi sopraffare dalla pigrizia e dalla comodità dello status quo. Consiglio impegno, dedizione e studio perché di questo si nutrono le ambizioni. Sono convinto che una delle chiavi del successo sia anche il riuscire sempre a trasformare le difficoltà in opportunità e stimoli per la crescita. Se si ha poi il desiderio di trasferirsi all’estero, consiglio di lasciare a casa i pregiudizi e essere pronti a capire le diversità per ricavarne un insegnamento.

Ti manca Veglie o il Salento in generale?
Veglie e il Salento non mi mancano perché ci torno quando voglio e quando ne ho bisogno. Il Salento farà sempre parte di me, sono le mie origini. I miei genitori mi hanno trasmesso i loro valori che sono inevitabilmente legati alle tradizioni e alla cultura del territorio. Sono un vegliese ma anche un cittadino del mondo.